Come mai si ha paura della vecchiaia e quindi della morte? Le risposte possono essere tante e diverse. È bene però iniziare a cercarle dentro ognuno di noi.
La commemorazione dei defunti, appena passata, ci ha messo dinanzi al tema della morte. Un tema estremamente carico da un punto di vista emotivo. La divisione e il distacco irreversibile da una persona cara rappresenta una tale afflizione e pena psicologica tra le più grandi che la vita ci possa far affrontare nel corso dell’esistenza. Ma non per questo bisogna evitare di parlarne.
La morte, a ben pensare, fa parte della vita. E’ intrinseca. Non parlarne e non accettarla significa non prendere in considerazione una parte di essa. Luigi Zoja, un grande psicoanalista italiano, parte da una riflessione filosofica e psicologica sulla morte. Descrive la società contemporanea infantile ed immatura circa l’incontro con la morte. Nell’uomo moderno, infatti, esiste l’illusione di non dover morire mai. Sebbene nell’ultimo secolo la popolazione anziana sia cresciuta di sette volte, questo dato, psicologicamente, tende a sparire. I valori dominanti, riflessi dai mass media, ci danno il quadro di una società ipomaniacale e unilateralmente giovanilista. In questo modo la cultura risulta squilibrata perché alla vita viene negato uno dei suoi poli.
Le coppie di gioventù e vecchiaia, vita e morte, non sono probabilmente mai state così divise come ora. In altri termini, si può dire che la coscienza collettiva accolga il giovane, rimuovendo invece l’anziano. Sempre Zoja, ci palesa, così, nella società attuale, una spaventosa gerontofobia (avversione per le persone anziane). Come mai questo avviene? Come mai si ha paura della vecchiaia e quindi della morte? Le risposte possono essere tante e diverse. E’ bene però iniziare a cercarle dentro ognuno di noi. Parlarne in un percorso di riflessione quale può essere, per esempio, una psicoterapia del profondo, può portare alla possibilità di osservare meglio la propria esistenza e vedere cosa manca. Può dunque diventare un’opportunità per ritrovare il senso che vogliamo dare alla nostra vita e una direzione che in quel momento, probabilmente, abbiamo smarrito. La morte scuote le fondamenta del nostro essere più di qualsiasi altra cosa.
Ma è dalla morte che impariamo a vivere e ad apprezzare la vita. L’idea della morte può salvarci. Ci permette, infatti, di dare voce ai nostri desideri più profondi. Ci permette di considerare poco significativi alcuni eventi o preoccupazioni, che magari ci tolgono la serenità. Ci permette di eliminare le cose futili per fare spazio a nuove priorità. E ci permette, non per ultimo, di amare: amare come se non avessimo altre possibilità. La morte è una grande insegnante, è un’antica signora della natura che ha molto da dirci riguardo la vita stessa. Chi non viene toccato e mutato dall’esperienza della morte in tutte le sue forme, come la morte di un figlio, di un amico, di un caro o di un prossimo, non ha alcuna possibilità di rinnovarsi e di evolversi. E di diventare più sensibile nei confronti della vita, dell’altro e di se stessi.
La psicologia analitica ci insegna che la morte porta con sé il suo opposto, ossia la nascita, o la ri-nascita. Ad ogni morte simbolica segue sempre una rinascita: ogni fine contiene in sé il germe della trasformazione e della rigenerazione. Dalla crisi, qualsiasi cosa si trasforma in un’altra. Dunque l’inizio e la fine si fondono e si confondono, in un movimento ciclico. Lì dove tutto finisce, troveremo nuovi inizi.
BibliografiaM. L. Von Franz, L. Frey-Rohn, A. Jaffè, L. Zoja. Incontri con la morte. Raffaello Cortina Editore. 1984.
E. Kubler-Ross. Impara a vivere, impara a morire. Armenia. 2001.
Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia