La tradizione alchimistica e la pratica analitica hanno in comune il tentativo di creare una realtà nuova e superiore: da una parte l’oro, la pietra filosofale, dall’altra la presa di coscienza.

Non bisogna sottovalutare il sentirsi perduti nel caos: tale smarrimento è la “conditio sine qua non” di ogni rinnovamento dello spirito e della personalità, sicchè rappresenta il primo contatto cosciente con la propria Ombra, il lato negativo della personalità.

Secondo C. G. Jung, padre della psicologia analitica, che condivido e propongo, l’individuazione è ciò che ciascuno di noi è chiamato a fare allo scopo di sviluppare la propria personalità individuale e differenziarsi dagli altri, diventando unico. Caposaldo della terapia junghiana, si può dire che il processo di individuazione è lo scopo stesso dell’esistenza. Ognuno di noi fino a circa 35 anni, è chiamato, da un punto di vista psichico, ad un impegno, che occupa gran parte delle proprie energie: conoscere, tenere a bada e utilizzare le proprie pulsioni psichiche. Ebbene, l’obiettivo della prima parte della nostra vita, e di una eventuale psicoterapia, in questa fase, è quello di diventare dei bravi cittadini che vivano in maniera sufficientemente equilibrata le proprie pulsioni e che, se vi sono state voglia e necessità, abbiano generato nuove vite. Il processo di individuazione arriva dopo questa fase di adattamento: è un processo che interessa la seconda parte della vita, una volta superate le tensioni pulsionali appunto.

Ma di fatto, in che consiste un’analisi che tenda all’individuazione del paziente? E’ bene prendere in prestito le immagini alchemiche di Jung, che paragonava l’analisi ad un percorso di purificazione. La tradizione alchimistica e la pratica analitica hanno in comune, infatti, il tentativo di creare una realtà nuova e superiore: da una parte l’oro, la pietra filosofale, dall’altra la presa di coscienza. Jung comprese che la produzione alchemica dell’oro non è altro che una metafora del raggiungimento del Sé e capì che le operazioni che dovevano portare alla realizzazione della pietra filosofale indicavano in realtà le tappe fondamentali che la psiche deve attraversare per ottenere la propria completa individuazione.

Alchimicamente, la nerezza, o nigredo, è lo stato iniziale, preesistente come qualità caotica della materia prima o provocato dalla decomposizione degli elementi. Non bisogna allora sottovalutare il sentirsi perduti nel caos: tale smarrimento è la conditio sine qua non di ogni rinnovamento dello spirito e della personalità, sicchè rappresenta il primo contatto cosciente con la propria Ombra, il lato negativo della personalità.

Dalla nigredo, dall’imparare a convivere con la propria Ombra, si passa poi all’opera al bianco, l’albedo, cioè al lavaggio o imbiancamento. Se l’opera al nero ha consentito di sperimentare una sorta di morte della propria vecchia personalità, con l’albedo comincia un processo di rinascita che porta un nuovo e più ampio senso della vita e di ciò che siamo soliti chiamare “conoscenza”.

L’albedo è in certo qual modo l’alba, ma solo la rubedo, l’opera al rosso, è il sorgere e il culminare del sole, e non ci può essere rubedo senza identificazione con la forza suprema dell’Eros, dell’Amore che vince su tutte le cose. Esso serve per ricongiungersi con l’altro da sé, quella figura di sesso opposto che è comparsa e che si è imparato a conoscere nell’opera al bianco. Ed ecco che solo l’amore, il calore del congiungimento dato dall’eros, apre le porte a questa terza ed ultima fase, che Jung, secondo la migliore tradizione alchemica, riassunse nella dicitura latina mysterium coniuctionis.

BIBLIOGRAFIA
Carl Gustav Jung. Psicologia e alchimia. Bollati Boringhieri 2006.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

Spesso soffriamo per la solitudine a cui siamo poco abituati ma solo facendo spazio al vuoto nella nostra vita si crea la possibilità che qualcosa di nuovo si presenti.

Quasi tutti ci troviamo a vivere periodi di solitudine non voluta che in genere iniziano con una perdita, un lutto, un abbandono o lo struggente desiderio di qualcuno. Eccezionalmente, con una pandemia. Molti, in questo momento, sono infatti obbligati a stare a casa da soli.

Un giorno, il marito della scrittrice Ardis Whitman abbracciò in fretta la moglie, si precipitò fuori di casa, fu colpito da un attacco di cuore e non tornò mai più. Anni dopo lei scrisse alcuni lati inaspettatamente gratificanti della solitudine: <Come il primo debole sole dopo la pioggia, c’è un tenue eppur crescente calore che è connaturato nella solitudine, inattesa quanto lo è il dolore. Il calore viene dal ricordo…e anche da un senso crescente della nostra identità personale. Quando viviamo circondati dagli altri, parte della passione e dell’intuito che ci sono naturali filtra via nella dispersione delle piccole conversazioni. Nei momenti più difficili si crederebbe che quanto stia accadendo sia la fatica umana definitiva: forgiare l’anima. La potenza della vita viene da dentro; va in quella direzione. Pregate, meditate. Raggiungete quei luoghi di luce che sono dentro di voi>.

Ecco che il più grande farmaco che guarisce è il Vuoto. Nonostante per il senso comune la parola vuoto evochi qualcosa di negativo (viviamo in un’epoca in cui non siamo mai da soli, siamo sempre connessi e il silenzio ci fa paura), la psicologia, soprattutto quella ad orientamento junghiano, sa bene quanto benessere possa derivare dalla ricerca del vuoto. E’ nel vuoto che i disagi e l’anima trovano ristoro e forze. Il vuoto mentale è difatti salutare: preoccupazioni, dolori, paure, ossessioni e ragionamenti inutili fluiscono via, fuori da noi. Le parole aumentano il disagio, il vuoto guarisce.

Tale senso di vuoto rende inoltre la psiche pronta ad accogliere le novità in modo costruttivo. Solo facendo spazio al vuoto nella nostra vita si crea la possibilità che qualcosa di nuovo si presenti. Del resto, anche i Taoisti lo dicevano: il Vuoto è un’energia fondamentale per darci equilibrio, stabilità e tranquillità. Vuoto, Silenzio e Nulla sono stati d’animo con cui guardare dentro se stessi.

Occorre, perciò, avere spazio dentro di sé, fare vuoto, per far emergere se stessi. E’ bene, dunque, vedere la solitudine come una necessità dell’anima, un’occasione e non qualcosa da cui fuggire.

<Da tale vuoto assoluto…sboccia meravigliosamente l’azione>.

BIBLIOGRAFIA
Jean S. Bolen. Le dee dentro la donna. Astrolabio Ubaldini Edizioni. 1991.

E. Herrigel. Lo Zen e il tiro con l’arco. Adelphi. 1987.

https://www.riza.it/psicologia/l-aiuto-pratico/7143/il-primo-ricostituente-della-mente-il-vuoto.html


Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

La psicologia del profondo sa che dentro di noi esiste un centro, il Sé: una vera e propria guida interiore da ascoltare.

Quella fredda inquietudine che si prova durante l’approssimarsi di una minaccia contro cui si può fare molto poco. Tuttavia, anche nella tempesta ognuno di noi ha il compito di prendersi cura di se stesso e di chi lo circonda.

Una delle cose più spaventose della peste nera che imperversò in Europa tra il 1348 e il 1349 fu il sentirla avvicinarsi. Serpeggiava attraverso le terre come un <fantasma senza radici>, come scrisse il poeta gallese J. Gethin. Viaggiatori e pellegrini parlavano di strade disabitate e superstiti ridotti in condizioni penose. Le città sbarravano i loro cancelli e gli abitanti si prostravano in disperati atti di penitenza. Gli ebrei vennero accusati di avvelenare i pozzi e le serve vennero imprigionate con l’accusa di aver infettato apposta i vestiti. Ma niente riusciva a cambiare le cose. Alcuni cronisti scrissero che in Europa morirono fino a nove persone su dieci. In molti credevano di stare assistendo alla fine del mondo, una punizione inferta da Dio per i peccati mortali. Se non si era già stati raggiunti dalla malattia, non c’era altro da fare che aspettare.

A differenza della paura e del panico, che di solito vengono scatenati da una minaccia vicina e immediata, il timore è quella fredda inquietudine che si prova durante l’approssimarsi di una minaccia contro cui si può fare molto poco. E’ ciò che sta accadendo in questi giorni. La maggioranza di noi, purtroppo, non ha altre possibilità se non sprofondare in una vischiosa impotenza e sperare che la malattia non si avvicini troppo.

Nei suoi primissimi usi, il termine “timore” descriveva la sensazione dell’essere resi muti e prostrati dalla presenza dello straordinario potere di Dio. L’aspetto del “tremendum” è un tratto che sempre accompagna la percezione del divino e del sacro.

Tuttavia, anche nella tempesta ognuno di noi ha il compito di prendersi cura di se stesso e di chi lo circonda. La psicologia del profondo sa che dentro di noi esiste un centro, il Sé: una vera e propria guida interiore da ascoltare. Come Raffaele Morelli, noto psichiatra e psicoterapeuta, ha rilasciato in una delle sue ultime interviste, nei momenti difficili non si devono prendere decisioni, ma ricordarsi del timoniere interiore che ci abita. Non bisogna essere in balia del virus, bensì occorre prendere tutte le precauzioni del caso, continuando a seguire la propria rotta. Sempre Morelli, ha affermato quanto sia importante per la nostra psiche che essa sia a contatto con il benessere, perché se continuiamo a pensare e a parlare solamente del virus, l’angoscia che ne deriva impatta sul sistema immunitario e lo indebolisce.

I bambini hanno imparato all’istante le regole di base: lavarsi le mani, non baciarsi e non toccarsi. Fatto questo, tornano subito a giocare. Ecco, dovremmo imitarli. Il senso del pericolo viene solo aumentato dal continuo parlarne. Dunque, è bene ascoltare la propria interiorità ed accogliere il disagio con fiducia. Così facendo, il disagio passa più rapidamente.

BIBLIOGRAFIA
Tiffany Watt Smith. Atlante delle emozioni umane. UTET 2017.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

“La malattia non è mai, in nessun caso, un qualcosa di fortuito che agisce in maniera anonima; la malattia è una delle possibilità di reazione che si presentano all’individuo allorchè si trova in quella che gli appare una situazione senza via d’uscita” (A. Mitscherlich.)

E la guarigione non rappresenta un ritorno a uno stato precedente di normalità, perché attraverso la malattia si cambia e dopo la guarigione il prima non esiste più. Anzi, guarire significa darsi nuove norme di vita, diverse e possibilmente migliori.

La malattia è un’interruzione del nostro vivere, mai come in questi giorni. Arriva con la sua forza di rottura e separa il tempo in un “prima”, dai tratti più svariati, e in un “adesso”, sofferto e confuso. Lontanissimi dall’idea che possa avere un qualsiasi senso, la viviamo con dolore, disorientamento, rabbia, frustrazione e paura. Non potrebbe essere altrimenti.

Eppure, proprio attraverso la crisi, nei suoi diversi aspetti, la Vita si rimescola e si afferma in modo sempre più complesso e consapevole. La Natura, infatti, spezza lo stato di cose precedente, il vecchio schema, e crea lo spazio per ricrearne un altro più adatto al presente. Il problema, per noi, è che la crisi/malattia ci fa precipitare nel disagio, senza darci suggerimenti diretti e leggibili sui cambiamenti da fare per star bene. E la patologia ci appare tanto più muta ed oscura quanto più è grave, invalidante e mortale.

Rispetto alla polmonite, sappiamo, in generale, che può essere causata da un gran numero di batteri, virus e funghi e favorita da tutto ciò che altera la dinamica del respiro. Oppure anche da stati di malnutrizione o depressione del sistema immunitario. I sintomi principali sono febbre elevata, tosse secca o con catarro, respiro frequente, debolezza e malessere generale.

E’ interessante, però, coglierne il senso. Che cosa vuol dire, da un punto di vista psicosomatico? La polmonite rappresenta lo scoppio di un forte conflitto col mondo esterno, di solito basato sul seguente schema: il soggetto ha dato molto di sé in un ambito su cui ha investito affettivamente ed emotivamente, ma qualcosa è andato storto, non è stato cioè corrisposto oppure riconosciuto, capito e ringraziato e ciò ha prodotto sofferenza e scoraggiamento che però egli nega a se stesso e agli altri. Quando il logorio psicofisico raggiunge la soglia, il polmone manifesta allora una grande tensione interna: la battaglia, difatti, è tra continuare a esprimersi e comunicare ed il ripiegamento e la chiusura dei rapporti. Il muco prodotto in abbondanza negli alveoli della zona colpita riduce così gli scambi gassosi tra sangue e ambiente, come a creare una barriera difensiva che protegga dal contatto ravvicinato con una relazione frustrante.

Il riposo assoluto è indispensabile e va prolungato anche dopo la fase acuta. La passività a cui la polmonite obbliga può perciò essere sfruttata come un’importante pausa per riflettere sulla propria condizione: un’osservazione più attenta, a volte, può rivelare che la nostra vita non stava scorrendo proprio del tutto tranquilla.

A differenza della medicina tradizionale, per la quale un disturbo viene considerato frutto di cause organiche, l’approccio psicosomatico sostiene che una patologia si colleghi direttamente al carattere di un individuo, al suo atteggiamento mentale, alle relazioni che instaura e al rapporto più o meno valido che ha con se stesso e con il proprio mondo emotivo. E la guarigione non rappresenta un ritorno a uno stato precedente di normalità, perché attraverso la malattia si cambia e dopo la guarigione il prima non esiste più. Anzi, guarire significa darsi nuove norme di vita, diverse e possibilmente migliori.

BIBLIOGRAFIA

Dizionario di Medicina Psicosomatica. Edizioni Riza S.p.A. 2012.
V. Caprioglio. Guarire con la psicosomatica. Mondadori Libri S.p.A. 2015.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

La paura si supera guardandola. Forse non c’è la possibilità di scoprire un tesoro dentro se stessi come quando abbiamo paura. Perché è proprio grazie alla paura che possiamo entrare in contatto con le nostre parti sconosciute.

“Non bisogna mai cedere alla paura, ma bisogna ammettere a se stessi di avere paura”. C. G. Jung.

La paura può essere alimentata da molte fonti diverse, e, in più, ogni giorno compaiono nuovi motivi per essere spaventati. Viene considerata la più primitiva e fondamentale delle emozioni umane: ci immaginiamo i nostri antenati che si rifugiano in una caverna mentre il cielo tuona sopra di loro, oppure li immaginiamo paralizzati, il cuore che batte forte, mentre accanto a loro passa una bestia feroce.

Fu Charles Darwin, celebre naturalista ed esploratore britannico, che per primo mise in evidenza le radici primitive della paura: «Possiamo credere», scriveva, che «fin da un tempo remotissimo la paura sia stata espressa dall’uomo in una maniera quasi identica a quella di oggi». La maggior parte degli animali condivide con noi le reazioni involontarie a una minaccia. Queste reazioni si svilupparono  con l’evoluzione per permettere alla nostra specie di sopravvivere. Così, gli occhi si spalancano e l’udito si acuisce, il cuore batte in fretta, respiriamo affannosamente o, all’opposto, tratteniamo l’aria nei polmoni. Cerchiamo di nasconderci, o di fuggire. O magari, grazie a un picco di adrenalina, ci mettiamo a lottare. Sono reazioni istintive. Davanti a una minaccia, il nostro corpo prende infatti il controllo e va avanti come se ci fosse il pilota automatico. Forse uno dei tratti più singolari della paura è la profonda diffidenza che proviamo verso di essa.  «La paura è la cosa di cui ho più paura», aveva scritto il filosofo e scrittore M. de Montaigne.

La paura può essere il nostro più grande alleato e salvarci da pericoli mortali, eppure ne parliamo come di una nemica, che arriva come un ladro, fa deragliare il pensiero razionale, infiamma le ansie latenti ed impedisce le azioni risolute. A volte, la paura può anche uccidere.

Viviamo in una società che è sempre più intollerante alla paura. Basta notare che i nostri spazi pubblici sono pieni di telecamere di sorveglianza, e sui mezzi di trasporto passano continui avvisi a prestare attenzione a questo e a quello. Ma queste insistite esortazioni a ridurre i rischi possono aumentare il nostro nervosismo. E così facendo ci viene continuamente ricordato quali sono i nostri punti vulnerabili.

A peggiorare la situazione arrivano poi «gli imprenditori della paura», ossia quelle aziende o gruppi di pressione che rinfocolano le minacce con titoloni di giornale e pubblicità aggressive. E così riescono a fare quello che tutte le pubblicità dovrebbero fare: creare un’ansia che sembrerebbe alleviarsi solo con l’acquisto.

Ma la paura si supera guardandola. Forse non c’è la possibilità di scoprire un tesoro dentro se stessi come quando abbiamo paura. Perché è proprio grazie alla paura che possiamo entrare in contatto con le nostre parti sconosciute. 

BIBLIOGRAFIA
Tiffany Watt Smith. Atlante delle emozioni umane. UTET 2017.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

“La depressione è una signora in nero, quando appare non bisogna scacciarla ma invitarla alla nostra tavola per ascoltare cosa ci dice”. C. G. Jung.

Siamo abituati a leggere i sintomi della depressione in chiave negativa. In realtà essi svolgono una funzione rinnovatrice. Basta saper cogliere l’occasione e trarre dal dolore della depressione il potere per la propria rinascita. 

La depressione è uno dei disturbi più diffusi in assoluto. Si stima, infatti, che oltre 300 milioni di persone ne soffrano. Rispetto al passato, la tendenza sembra in aumento, colpendo sempre più giovani. Si tratta di un’alterazione costante del tono dell’umore, un’importante funzione psichica che, con la sua flessibilità, ci consente l’adattamento al nostro mondo interno ed esterno. Il tono dell’umore si innalza quando ci troviamo in situazioni positive e piacevoli e si abbassa in situazioni negative e spiacevoli.

Nella depressione, invece, il tono dell’umore si fissa verso il basso, perde la sua flessibilità e non è più influenzabile da eventi positivi e favorevoli. Nella fasi più lievi o in quelle iniziali lo stato depressivo può essere vissuto come incapacità a provare un’adeguata risonanza affettiva o come accentuata labilità emotiva. Nelle fasi acute, invece, il disturbo dell’umore si fa più evidente e si sperimentano vissuti di profonda tristezza, sgomento e disperazione, associati alla perdita dello slancio vitale. Cresce anche il disinteresse per le normali attività e si sperimentano sentimenti di distacco e di inadeguatezza. Perfino la nozione di tempo è modificata: il suo scorrere continuo rallenta fino a fermarsi e si ha la sensazione che la giornata sia interminabile, che tutto sia stagnante. Il futuro appare così privo di speranza ed il passato vuoto e inutile. Emergono, perciò, sensi di colpa e previsioni di rovina e di miseria.

Nella maggior parte dei casi, la depressione può essere affrontata attraverso un percorso di psicoterapia. L’aiuto di psicofarmaci è riservato solitamente alle forme più gravi. In generale, le cause della depressione sono un insieme di fattori esistenziali, affettivo-relazionali, biologici, genetici e familiari.

Secondo Raffaele Morelli, psichiatra e psicoterapeuta, direttore dell’Istituo Riza, il vero responsabile è però il nostro stile di vita: commettiamo ogni giorno gli stessi errori che arrivano a spegnere la parte più antica e profonda del nostro cervello, quella ipotalamica e limbica, dove abita la nostra natura più vera. Ripetiamo, cioè, azioni identiche, parliamo per frasi fatte, recitiamo un personaggio, che non corrisponde a ciò che realmente siamo, perseguiamo obiettivi inutili, così come di cose inutili riempiamo la mente.

Sta diventando un fenomeno patologico diffuso, probabilmente proprio perché conseguente al tentativo dell’uomo di uniformarsi, uniformarsi molto spesso a modelli ideali, tante volte irraggiungibili. Nel costringerci a spegnere i riflettori sul personaggio che stiamo dunque recitando, la depressione diventa allora il tentativo del cervello di liberarci da progetti di vita innaturali e artificiali, spingendoci verso l’originalità e stimolandoci alla ricerca del nostro talento e della nostra creatività.

Siamo abituati a leggere i sintomi della depressione in chiave negativa. In realtà essi svolgono una funzione rinnovatrice. Basta saper cogliere l’occasione e trarre dal dolore della depressione il potere per la propria rinascita.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
https://www.riza.it/psicologia/depressione/2375/depressione-definizione-sintomi-cura.html

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia.

La dinamica sottesa all’insorgere dell’ulcera ha solitamente le sue radici nelle primissime fasi di vita.

Accanto alla rappresentazione della madre buona, che nutre, si crea anche quella della madre cattiva, che viene repressa e proiettata all’esterno. Nelle storie dei malati di ulcera si trovano spesso madri oggettivamente frustratrici, che gestiscono in modo rigido i tempi di allattamento, respingono le espressioni di aggressività, sessualità ed indipendenza e, anche se apparentemente spingono i figli all’affermazione sociale, si oppongono di fatto ad un distacco da loro, anche in età adulta. 

Tra i disturbi gastrici, il più studiato dal punto di vista psicosomatico è l’ulcera peptica. Negli ultimi cinquant’anni sono state numerosissime le ricerche svolte sia dal punto di vista psicofisiologico che psicoanalitico sulle modificazioni dell’attività gastrica sotto l’influsso delle emozioni. Ed oggi è ormai ampiamente riconosciuta l’influenza dei fattori emotivi sulla genesi di questo disturbo.

La dinamica sottesa all’insorgere dell’ulcera ha solitamente le sue radici nelle primissime fasi di vita. Secondo Garma, considerato il padre della psicoanalisi argentina, il bambino attribuisce alla madre la responsabilità delle proprie sensazioni organiche anche spiacevoli: così è la mamma che toglie il cibo (fame), dà alimenti cattivi (disturbi intestinali) e morde dentro (dolori gastrici). Dunque, accanto alla rappresentazione della madre buona, che nutre, si crea anche quella della madre cattiva, che viene repressa e proiettata all’esterno.

Come Garma stesso sottolinea, nelle storie dei malati di ulcera si trovano spesso madri oggettivamente frustratrici, che gestiscono in modo rigido i tempi di allattamento, respingono le espressioni di aggressività, sessualità ed indipendenza e, anche se apparentemente spingono i figli all’affermazione sociale, si oppongono di fatto ad un distacco da loro, anche in età adulta.

Ebbene, le frustrazioni della vita adulta possono condurre alla regressione alla fase orale-digestiva, tanto da far riemergere la cattiva madre interiorizzata che “morde di nuovo”. Il sintomo stesso dell’ulcera peptica simbolizza, sempre secondo Garma, il taglio del cordone ombelicale, la ferita di castrazione, la punizione inflitta dalla madre persecutrice per i tentativi di indipendenza.

Quali possono essere allora i tratti di personalità del paziente ulceroso? E’ possibile riassumerli nella cosiddetta “personalità di successo”. Si tratta, cioè, di una persona che ricerca il successo in modo spasmodico, come rivalsa verso la propria dipendenza dal mondo materno e come tentativo di affermare la propria autonomia dagli altri. Egli vive, però, al contempo, in uno stato di profonda dipendenza, di cui ha molta paura e che vuole nascondere a tutti i costi, spaventato dall’idea che qualcuno possa accorgersi della sua grande esigenza di rassicurazione. Tale ansia di indipendenza, realizzazione e successo, a ben guardare, tende quindi a coprire un profondo desiderio di dipendenza e di protezione.

Altre caratteristiche ricorrenti possono essere: la tendenza a reprimere fortemente la propria contrarietà e aggressività, rivolgendola su se stesso, una sessualità di impronta infantile, che a volte risulta molto repressa o quasi assente, altre volte vissuta in modo frenato per il timore di restare delusi nel proprio bisogno d’amore e una madre invadente che vuole imporre le proprie scelte di vita.

Nonostante questi aspetti siano riscontrabili in molti pazienti ulcerosi, non è corretto farne però uno schema rigido, in quanto la realtà clinica si presenta molto più variegata.

Dunque, affinchè ci sia una vera guarigione, è fondamentale un profondo cambiamento psichico ed emotivo. In virtù di una indispensabile autonomia, è necessario, infatti, imparare due elementi fondamentali, ossia chiedere agli altri ciò di cui si sente il bisogno, superando la paura di ricevere un rifiuto, ed essere meno severi con se stessi. Una psicoterapia può senz’altro rivelarsi utile.


BIBLIOGRAFIA
Dizionario di Medicina Psicosomatica. Edizioni Riza S.p.A. 2012.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia.

I colori sono in grado di suscitare emozioni e sensazioni. Importanti sono la flessibilità e l’alternanza.

Seppur privilegiando il nostro colore preferito, con il quale ci sentiamo più a nostro agio, l’apertura anche ad altri colori può aiutarci ad esprimere con maggiore pienezza noi stessi.

Una tradizione divertente legata alla notte di San Silvestro, vuole che si indossi, per iniziare il nuovo anno, della biancheria rossa. Che si osservi o no questa usanza, è curioso esplorare i motivi della scelta dei colori legati alla seduzione. La donna, sempre molto attenta ai colori che indossa, sia negli indumenti sia sul suo corpo, ad esempio unghie e capelli, attraverso la propria scelta esprime, infatti, il suo carattere e l’immagine che vuole dare di sé. Anche l’uomo, da parte sua, si diverte a stuzzicare la sua partner, regalandole biancheria dalla foggia e dal colore che possono risvegliare la sua fantasia. Può essere interessante, allora, fare un’ipotesi di lettura psicologica che metta in rapporto i colori e l’amore.

In genere, i colori più coinvolti nel gioco dell’amore e della seduzione sono il rosso, il nero, il bianco, il rosa e il viola, nelle loro varie sfumature.

Il rosso è il colore associato alla passione, all’amore, all’istinto, al desiderio e alla sessualità. Rappresenta una condizione fisiologica di stimolo e di eccitazione: alza la pressione arteriosa, aumenta la frequenza cardiaca, stimola l’attività nervosa e ghiandolare e gli organi della riproduzione. Chi ama questo colore esprime un modo di essere allegro, estroverso e ottimista oppure vuole dare questa immagine di sé agli altri, compensando, così, le proprie insicurezze. Se lei, in una serata intima, sceglie di indossare biancheria rossa, e magari rosso acceso anche per le labbra e le unghie, vorrà esprimere apertamente ardore e passione e sarà in grado di prendere anche l’iniziativa. Lui potrà essere piacevolmente sorpreso e incoraggiato se ama una donna sessualmente aggressiva e intraprendente, ma potrà, invece, sentirsi inibito se l’immagine che ha del femminile è più tenera e delicata.

Il nero, invece, è il colore dell’aristocrazia, dell’eleganza, della sobrietà e di una raffinata seduzione. Chi sceglie il nero per sedurre vuole usare armi più indirette, passando per il fascino sottile della cerebralità. Tuttavia, poiché il nero esprime anche l’idea del buio, del mistero e della morte, la donna in nero potrà rivestire anche il ruolo della seduttrice pericolosa e fatale. L’uomo che ama questo tipo di donna è attratto da una donna misteriosa e raffinata.

All’opposto, il bianco rappresenta l’inizio di ogni cosa, è simbolo di innocenza, di purezza e di candore. Difatti, è il colore che si associa alle cerimonie che scandiscono un nuovo inizio, quali il battesimo, la prima comunione e il matrimonio. La donna che sceglie il bianco desidera dunque sottolineare la freschezza, la semplicità e il rigore e non è incline ad abbandonarsi troppo al coinvolgimento e alla passione. L’uomo che preferisce la donna in bianco è attratto dall’immagine di una donna statuaria e inaccessibile, da sognare ma non da violare.

Mentre il rosa è il colore che richiama la bellezza femminile delicata, dolcemente sensuale e teneramente fanciullesca. Tant’è che conferisce alla donna un’immagine di delicatezza e di freschezza adolescenziale e di affettività garbata. L’uomo che ama vedere sulla donna questo colore tenderà a scegliere una donna dolcemente femminile, da proteggere, con tratti infantili e ingenui.

Infine, il viola è in grado di donare fascino, soprattutto nelle tonalità più morbide. Ambiguo e misterioso, fonde la polarità del maschile e del femminile. E’ collegato alla fantasia, al sogno, all’attrazione e alla seduzione fatale. La donna che ama indossare abbigliamento e biancheria nei toni del viola vuole apparire diversa, creativa e ama suscitare ammirazione per la propria originalità. L’uomo che ama il fascino del viola è attratto da un erotismo cerebrale e raffinato.

Ebbene, possiamo certamente dire che i colori sono in grado di suscitare emozioni e sensazioni. Importanti sono la flessibilità e l’alternanza: seppur privilegiando il nostro colore preferito, con il quale ci sentiamo più a nostro agio, l’apertura anche ad altri colori può aiutarci ad esprimere con maggiore pienezza noi stessi. 

BIBLIOGRAFIA
F. Padrini. La vita di coppia. Edizioni Riza S.r.l. 2004 

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia.

La colite di Mario, inappuntabile professionista, compare solo sulla soglia di casa. Appena torna in famiglia sono dolori. E’ il segno di un conflitto sordo e profondo che risale a molti anni prima.

L’intestino “sente” più di qualsiasi organo: sente le emozioni e percepisce gli squilibri dell’intero organismo. E’ un vero e proprio centro sensoriale che, oltre ad assorbire i nutrienti fondamentali, assimila anche gli stati emotivi.

E la colite è certamente tra le patologie maggiormente rivelatrici dei nostri disagi anche psicologici. Disturbo psicosomatico per eccellenza, questa affezione è difatti una vera e propria spia di personalità e modi di essere non ascoltati che si riversano su una parte centrale del nostro organismo, ossia la pancia.  Infatti, è qui che vengono “pensate” le emozioni viscerali ed è qui che noi stessi decidiamo se accettarle o no, se viverle oppure no. Vi porto un caso.

Il caso di Mario, un rappresentante quarantenne che soffre di depressione e di attacchi di colite acuta da quando sono nate le sue figlie gemelle. La sua colite si manifesta con forti dolori addominali e con dolorose scariche diarroiche, che si susseguono in breve tempo. Tutto ciò accade solo all’interno della propria abitazione. Anche nel raccontare la sua vita, Mario mostra come la sua depressione inizi e finisca all’interno delle mura domestiche: <La sola idea di tornare a casa, dalla mia famiglia – racconta in terapia – mi fa morire. Appena varco la soglia sento la mia energia vitale spegnersi e mi trasformo in una salma, completamente apatico>. Nella vita lavorativa, invece, Mario si dimostra attivo, impegnato e con una precisione quasi maniacale: <Il mio maggior pregio è la capacità di organizzarmi, sono metodico, puntuale e preciso. Sono convinto che il lavoro per essere efficace debba essere perfettamente organizzato. I conti devono sempre tornare!>.

Dai colloqui emerge che la madre di Mario è una donna ansiosa e iperprotettiva, mentre la moglie, fino alla nascita delle figlie, è sempre stata nei suoi confronti affettuosa, disponibile e sempre presente, quasi materna. Ma da quando sono nate le due figlie, è totalmente impegnata con loro ed anche la madre è sempre in casa ad aiutarla. Questo cambiamento di vita è dunque vissuto in maniera drammatica e violenta da Mario che, all’improvviso, si trova senza l’attenzione e il sostegno delle persone che si sono sempre occupate di lui.

Ecco la colite, che rappresenta l’aggressività e la contrarietà trattenuta che poi improvvisamente e dolorosamente si scarica. Per lui così organizzato, quasi quadrato, così preciso, qualcosa non funziona più, i conti non tornano.

Tra i racconti di Mario spicca quello di un sogno ricorrente: <Sono su un vagoncino carico di letami e di escrementi in cima ad una collina. Ad un certo punto il vagoncino comincia a precipitare vorticosamente giù per la discesa e io non riesco a fermarlo. Alla fine il vagoncino si distrugge e gli escrementi spargendosi ricoprono ogni cosa>.

L’iter terapeutico conduce Mario a prendere sempre più coscienza che i suoi disturbi  sono causati da un’aggressività trattenuta e il sogno opprimente si modifica in un sogno capace di risvegliare la sua consapevolezza: <Sogno ancora di essere alla guida di quel vagoncino carico di escrementi, ma adesso, mentre inizia a precipitare, lo riesco a trattenere e a controllare>. Con l’emergere di questo secondo sogno, la sua colite comincia a sfumare.

BIBLIOGRAFIA
Curare il colon. Edizioni Riza S.p.A. 2013.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia.

La cervicalgia sta ad indicare un rapporto rigido tra collo e testa e rivela che emozioni e razionalità non dialogano. Il più delle volte la troppa razionalità è associata a un rigido senso del dovere.

Il tratto cervicale è costituito da sette vertebre, la prima delle quali, che sostiene la testa, prende il nome di Atlante, il titano mitologico condannato a sostenere su di sé l’intero peso del mondo. Da un punto di vista simbolico, si tratta di un vero e proprio crocevia tra il capo e il resto del corpo. Infatti, all’interno del collo, in poco spazio, il compito di vertebre, muscoli, articolazioni e nervi è quello di veicolare tutte le sollecitazioni e le informazioni che il corpo e la testa si scambiano a vicenda. E’ proprio per questo che spesso i disturbi che riguardano quest’area sono legati a un equilibrio che viene a mancare.

Dunque, il dolore al collo e alla nuca, talora accompagnato da difficoltà di movimento, rigidità muscolare e disturbi della sensibilità di braccia o mani, quali i formicolii, sta ad indicare un rapporto rigido tra collo e testa e rivela che emozioni e razionalità non dialogano. Il più delle volte la troppa razionalità è associata a un rigido senso del dovere.

Ecco allora le due tematiche principali di chi soffre di cervicale: persona di solito socialmente inserita e affidabile sul lavoro e nelle amicizie, ma che per mantenere questi aspetti paga un duro prezzo nella vita personale. La cervicalgia si presenta così in chi, spesso inconsapevolmente, tenta un controllo mentale esasperato sui vari aspetti della realtà, come ad esempio le proprie emozioni e istinti, di cui sente la vitalità ma che, in fondo, non conosce e che quindi teme, il proprio corpo, che osserva dall’alto della mente e che trascura, ritenendolo secondario, le relazioni, che impronta su un piano di rassicurante razionalità, anche se ben mascherata da una empatia di facciata ed, infine, la spiritualità, che impregna di significati logici e filosofici. Inoltre, al controllo si affianca il senso di responsabilità e spesso la tendenza all’altruismo.

Ma in realtà, ci si occupa degli altri per non occuparsi di sé, per difendere narcisisticamente la propria immagine idealizzata di persona sensata e intelligente, oppure per gestire le azioni altrui, così da non perdere il controllo della situazione. Ebbene, il dolore diventa espressione, da un lato, della grande fatica a mantenere questo precario equilibrio, dall’altro, della necessità di un cambiamento nella propria postura esistenziale.

Senza la riduzione del carico di impegni o un atteggiamento più consono alla propria natura, nessun intervento potrà essere però realmente efficace. E’ bene pertanto prenderne consapevolezza, eventualmente attraverso un trattamento psicoterapico ad indirizzo psicosomatico.

BIBLIOGRAFIA
Dizionario di Medicina Psicosomatica. Edizioni Riza S.p.A. 2012.

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia.